“Passaggio indietro, occhio al fuori gioco, silenzio in campo. Il resto si impara. A meno che tu non sia Jonah Lomu. Allora basta tenere il pallone fra le mani e correre. E chi ti prende più.” (Marco Pastonesi).
È strano trovare fra le news del nostro sito un post come questo, ma per conoscere il nostro sport, come accade anche per altre cose, è bene fare i conti anche con quello che viene scritto di esso. Leggere L’Uragano Nero, vuol dire far conoscenza con un grande campione scomparso, con un mito, ma anche con molti aspetti del rugby che fanno sì che sia una disciplina altamente educativa per tutti coloro che la praticano, dai più piccoli ai professionisti.
Questo libro non parla unicamente di Jonah Lomu, ma racconta anche di tantissime esperienze, che mostrano come grazie al rugby (ai suoi giocatori, allenatori, dirigenti, appassionati), famiglie, giovani con una storia difficile e carcerati, abbiano trovato un luogo per crescere e andare oltre ai propri problemi: non solo un’occasione di sfogo.
Nonostante tutti i difetti e limiti che conosciamo, del rugby si può tranquillamente dire che non si tratta semplicemente di una disciplina sportiva: il nostro sport è caratterizzato da una cultura forte e condivisa ai quattro angoli del pianeta, nella quale la persona ha ancora una grande importanza e dove le regole sono fatte per chi lo pratica. Nelle giovanili lo si vive spesso: è facile fare amicizia non solo fra ragazzi ma anche fra genitori perché ci si riconosce all’interno di un ambito positivo.
“Se ogni sport è una rappresentazione della guerra, il rugby è una guerra di conquista il cui obiettivo è penetrare nel cuore della terra nemica. È anche un gioco dove l’imprevedibilità è congenita ed è anarchico come i rimbalzi del pallone. È uno sport animalesco ma soprattutto umano, perché il centro dell’azione è il pallone e non l’uomo. Per praticarlo ci vuole la forza del pugile e la maestria dell’orologiaio.
Del Rugby gli All Blacks incarnano lo spirito, la leggenda, la perfezione delle trame d’attacco. Tra di loro un giorno spunta un ragazzone di origini Tongane, un gigante che corre sfiorando l’erba come una gazzella. Si chiama Jonah Lomu, un “carro armato, ma veloce come una Ferrari”. Al mondo si rivela nella Coppa in Sudafrica nel 1995. In semifinale contro l’Inghilterra. La casa madre contro gli dèi di Ovalia. L’attesa è spazzata da un fax spedito all’albergo dei Neozelandesi: “Ricordatevi che il rugby è un gioco di squadra. Perciò tutti e quattordici passate la palla a Jonah Lomu.”. Sembra uno scherzo, ma è una profezia. Lomu dominerà la sfida, seminando un senso di impotenza nel campo avversario. La sua apparizione è però come la scia di una cometa: il suo fisico portentoso sarà tradito da una sindrome nefrosica, che finirà per prendersi anche la sua vita. Lomu, cresciuto fra i delinquenti di Auckland, salvato dal rugby, resterà nella storia dello sport come Senna o Jim Thorpe, atleti maledetti. O come Coppi, di cui era l’antitesi. “Coppi era un cirro bianco nel cielo azzurro. Lomu un lembo scuro che annuncia l’uragano.”. (Marco Pastonesi).
Buona lettura!